Senza Forma (La mia penna ...)

Racconto Pubblicato in: AA VV I racconti di Arcipelago, Raccolta di racconti brevi scritti per un Concorso letterario dedicato al medico-scrittore Salvatore G. Vicario – a cura di Eleonora Vicario (Il mio libro.it 2021)


Racconto finalista al Concorso Letterario Nazionale Argentario 2022 VI Edizione - Sezione Narrativa Edita Breve

Racconto finalista al Concorso Scrivendo Ancora 2022 - Sezione Racconti - Kubera Edizioni 
 




Senza forma

 di Francesca Cammisa




Nebbia. Nulla è a fuoco in questa notte umida. Ma stranamente non ho freddo. Cammino lentamente, in cerca di non so cosa. Tutto è silenzio.

“Stai zitta! Non parlare!”

L’uomo mi cinge il collo con forza da dietro per non farsi vedere. Non riesco a respirare.

“Vieni con me!” Mi trascina dentro una macchina, mi fa sdraiare sul sedile posteriore e parte. Non ricordavo di aver incontrato una macchina lungo il mio cammino. Ma invece era lì. Resto ferma. Riprendo a respirare. Non mi muovo anche se potrei fuggire via. Potrei dargli una botta in testa da dietro, ma non lo faccio. Prendo il mio cellulare in tasca, provo a digitare il codice di accesso, ma sbaglio sempre, perché non riesco a digitare i sei benedetti numeri? Il cellulare si blocca.

Guardo in alto, cercando di scorgere fuori dal finestrino qualche dettaglio che mi indichi dove stia andando. Ma è solo nebbia.

L’uomo non parla. Guida in modo fluido, senza scatti. Mi addormento.

Mi risveglio in una stanza buia, illuminata da una piccola abat jour. Sono sola ma stranamente non ho paura. La stanza è calda, ben arredata, mi fa sentire quasi protetta. Chi ha allestito questa stanza deve conoscermi, se non bene, ma almeno in parte.

Mi accuccio nel letto, riprendo il cellulare ma qui non c’è campo. Come può una persona pensare di rapire qualcuno senza togliergli il cellulare? Deve essere una persona buona. Ma può una persona buona togliere la libertà a qualcuno che ama? Mi chiedo perché io abbia pensato “che ama”? Io non so chi sia e tantomeno so se mi ama. È forse qualcuno che mi vuole possedere o forse violentare? Ricordo quella volta quando in un’estate ormai lontana, quel gruppo di ragazzi poco più grandi di me portò me e le mie amiche in quella casa disabitata. Avevo undici anni, ero piccola, qualcosa di nuovo per me. Mi portarono in una stanza, mi sdraiarono per terra, mi spogliarono, e fecero sul mio corpo quanto loro passava per la testa. Al momento non mi resi conto cosa stessero facendo, ma solo anni dopo capii che quanto fecero a quel corpo ancora acerbo condizionò la ma vita relazionale e sessuale. A pensarci bene, mi fece più male quando lo raccontai ad uno dei miei amanti che mi disse che in fondo ero io che mi ero cacciata in quella situazione ed era colpa mia. Ma colpa di cosa? Di essere una bambina disincantata che ancora non sapeva come andasse il mondo? Il mio rapitore è più buono del mio vecchio amante.

Non ci sono finestre qui. Non sento rumori fuori dalla stanza. Mi guardo intorno e trovo dei libri. Il mio rapitore è un uomo di cultura. Un uomo così, che legge, dovrebbe amare la libertà, spaziare nei confini infiniti delle storie. Dovrebbe avere una mente aperta e chi è così dovrebbe lasciare libero chi gli sta intorno. Ma una persona che legge spesso rimane imbrigliata nelle storie raccontate in quei romanzi e a volte è come se le vivesse in prima persona e non vorrebbe mai uscirne, perché la distolgono dalla realtà che la circonda. Il mio rapitore mi ha chiuso qui dentro perché mi ama e vuole preservarmi dalla vita vera. Ecco perché sono qui! Tutti i libri che ha scelto sono quelli che amo di più. Come fa a conoscermi così ….

Mi immergo nella storia di uno di quei libri e perdo ogni cognizione del tempo. Fino a che non mi rendo conto di avere fame. Che ore saranno? Il mio rapitore ha percepito la mia fame! Sento bussare e aprire la porta. Non riesco a vederlo bene. Ha un cappuccio che gli copre il viso ed in mano un vassoio. Non parla, non dice niente, io lo fisso in attesa di una parola, di una minaccia, di un grugno o forse anche un sorriso, ma resto delusa. Mette il vassoio sul tavolo e poggia vicino un CD. Chiude la porta alle sue spalle e se ne va.

Mangio voracemente il mio pranzo. Era da tempo che non avevo così tanta fame. Ultimamente ero disappetente, non mi andava di mangiare, non avevo voglia di nutrirmi. Come quando passai quel periodo strano quando ero ragazza. Arrivai a pesare 45 chili. Mi ero ridotta ad uno scricciolo e nessuno se ne accorse. Era stato meglio così. Se non se ne erano accorti era per poca attenzione nei miei confronti, per fortuna nessuno mi chiese niente, perché alle domande fatte così per finto interesse io non avrei risposto. Comunque non avrei saputo che dire, non è facile individuare cosa è che non va in noi stessi. Se fosse così risolveremmo i nostri problemi molto più facilmente.

Prendo il CD, non c’è copertina, lo infilo nello stereo. Riconosco subito dalle prime note lo Stabat Mater di Pergolesi. Amo questa composizione. Ricordo quando la cantai in quel monastero di Benedettini a Norcia. È stato prima che il terremoto distruggesse parte del monastero. Quando eseguimmo la composizione si instaurò un’atmosfera magica. Era come se fossimo stati sbalzati fuori dalla realtà e volassimo lontano nell’universo. Le nostre anime ne uscirono quasi purificate. Mi fecero molti complimenti (chissà, forse tra loro c’era anche il mio rapitore ad ascoltarmi), ero davvero felice quel giorno, avrei voluto vivere per sempre così, avrei voluto cantare, immergermi nelle arie. Misi così a frutto il mio diploma del Conservatorio. Ma volevo fare di più, perfezionarmi in ogni campo del canto. Decisi di frequentare un corso di specializzazione in canto lirico, per migliorare la tecnica, l’interpretazione, l’arte scenica, per imparare a immedesimarmi nel personaggio.

Riordino le mie idee.

Da un lato vorrei dimenticare quelle 13 lezioni e da un lato vorrei fermare il dolore che mi hanno provocato per non dimenticare e per trovare la forza di prendere coscienza di quanto accadde. Ed è per questo che ho bisogno di riordinare le mie idee, come atto liberatorio.

Non andavo a “scuola” molto volentieri. Era un peso per me, nonostante fosse stata una mia scelta ben motivata. Anche se conoscevo e conosco perfettamente i miei limiti, limiti che ero sicura di poter superare con lo studio e l’esperienza.

Alla fine del corso il maestro ha tirato fuori i diplomi, e su ogni diploma era contenuto il giudizio complessivo di ognuno, giudizio che è stato letto ad alta voce davanti a tutti. Parole chiave del mio giudizio: soprannominata “tristezza”, incapace di cogliere lo stato d’animo dei personaggi, incapace di ascoltare le indicazioni del direttore, incapace nel seguire la musica, giudizio complessivo quasi sufficiente. Ma in fondo avrei avuto delle buone capacità.

Complessivamente sapevo che alla fine della scuola non sarei stata brava come avrei voluto. Ero mediamente accettabile, ecco, ma avevo una grande volontà di riuscire e dare il meglio di me. Per questa ragione, accettavo mio malgrado, i modi bruschi del maestro.

Quali sarebbero i rimproveri che duramente avanzava contro di me? In finale: ero poco intelligente (perché non avevo l’intelligenza di cogliere le sfumature dei personaggi), mancanza di sentimenti, spesso stonata, non ero capace ad ascoltarlo, non capivo nulla; ma la cosa che mi colpiva di più era il fatto che mi dicesse che io non ero capace di ripetere lo stato emotivo dei personaggi perché non possedevo quei sentimenti, ero incapace di esprimere l’amore, la passione, il sentimento, la rabbia, la gioia, la freschezza, il dolore. Ero una insensibile. Secondo lui, qualche volta riuscivo ad esprimere solo la tristezza, per questo mi aveva soprannominato Ifigenia.

Non era sempre così, ogni tanto qualche complimento me lo faceva, e alcune volte aveva ragione delle mie incapacità, altre io non riuscivo a trovare, riascoltandomi, ciò su cui lui mi rimproverava. Erano sempre più bravi gli altri (anche se spesso non riuscivo a cogliere la loro bravura). Devo dire che spesso si dispiacevano per questo accanimento nei miei confronti e sottobanco mi davano pacche sulle spalle, o a voce bassa mi dicevano “su forza, non ti preoccupare”. Anche se, devo dire la verità, spesso l’accanimento non era rivolto solo a me ma anche agli altri.

I miei pensieri vengono interrotti dall’apertura improvvisa della porta. Entra, non mi guarda neanche. Prende il vassoio e, come è entrato, silenziosamente esce. Che buon profumo lascia dietro di sé.

Dopo tanto tempo mi ritrovo a cantare. Tanto qui non mi sente nessuno, posso gorgheggiare come mi pare. Canterò per il mio rapitore. Ma dietro la porta non sento nessun rumore, nessun respiro, niente di niente. Sarà ancora lì? Canterò ugualmente fino allo sfinimento. Mi sono preparata e, per entrare nella parte,mi sono tirata su i capelli e ho appuntati tanti fiocchetti rossi. E ho cantato, sentendomi libera come non mai.

Mi sono addormentata e ho sognato che camminavo in un bosco fitto per poi trovarmi in una radura piena di sole. Mi veniva incontro mia madre che, avvicinandosi a me, mi sorrideva, mi scioglieva i capelli, toglieva ad uno ad uno i fiocchetti rossi e li carezzava. Sentivo così reali quelle carezze. Quando mi sono svegliata avevo i capelli sciolti appoggiati lungo il cuscino e fiocchetti rossi posati sul comodino. È stato qui, ne sono certa.

Tempo. Tempo. Passa il tempo, scandito dalle volte in cui viene a portarmi da mangiare. Nei vari frattempi non mi annoio mai. Ho sempre qualcosa da fare.

Sposto il vassoio e mi accorgo che aveva lasciato lì qualcosa. Un volantino di un locale, il Blue Nile. Ho lavorato per un po’ di tempo al Blue Nile, un locale in cui si suonava musica jazz dal vivo, mi avevano presa per cantare. Ogni sera accompagnata dal pianista mi cimentavo in standard jazz, ma ogni tanto sperimentavamo anche qualcosa di nuovo. Ero brava, sì, questa volta lo posso dire. Avevo molti consensi. Chissà cosa avrebbe detto il mio maestro di canto se mi avesse ascoltato. Ma per lui esisteva solo il canto lirico, ogni altro genere musicale che non fosse classica non esisteva, era feccia, e io ne facevo parte. Poi all’improvviso finì tutto, precipitai in un pozzo dal quale non riuscivo più ad uscire.

Ma qui c’è anche un CD, lo inserisco nel lettore, “Cocaine”. Sento il sangue che mi sale al cervello. Come fa a saperlo? Non lo sa nessuno, tranne colui che mi ha trascinato in quel tunnel dal quale non riuscivo più a uscire. Ma quella maledetta polvere bianca lo ha ucciso e stava per uccidere anche me. Mi disse, non ti preoccupare, non diventi dipendente. Intanto lui aveva le allucinazioni, mostri che gli andavano incontro per ingoiarlo. La notte non dormiva più, e in quei momenti che riusciva ad addormentarsi, aveva gli incubi e si svegliava urlando. Mi coinvolse una sera, dicendomi di dover incontrare dei produttori che sosteneva fossero interessati a me, alla mia voce. “Vieni con me, mi hanno chiesto di conoscerti” mi disse “vedrai ti piaceranno”. Entrammo in una casa nel quartiere più bello e più ricco della città. Una casa bellissima. Ci venne ad aprire una signorina con una divisa da cameriera d’altri tempi. Ci accompagnò in un salone enorme, con tanti angoli conversazione. Si avvicinò a noi il padrone di casa, almeno credevo così che fosse. “Ah finalmente! Pensavamo non venissi più. Hai portato quello che ti ho chiesto?” Pensavo si riferisse a me. Diventai rossa, ma il tipo neanche mi guardava, anzi non siamo stati neanche presentati. Capii che non ero io il “desiderata”. “Che scherzi? Sono riuscito ad ottenere la migliore in circolazione”. Tirò fuori dallo zaino pacchetti pieni di polvere bianca. Mi coinvolsero a tirare. Era la prima volta per me e non mi dispiacque. E mentre tiravo pensavo, tanto io non ci casco. Cosa vuoi che sia pippare ogni tanto? Passammo la notte in bianco, io a zompettare qua e per la casa e lui sdraiato sul divano sbranato dalle sue allucinazioni. Mi aveva promesso che quella gente lì mi avrebbe introdotta nei grandi circuiti del jazz. La realizzazione del mio sogno era l’unica ragione per cui mi ritrovai a frequentarli, almeno inizialmente, poi la polvere bianca prevalse. Inizialmente la prendevo solo durante quei festini, mentre mi dicevo che ne sarei rimasta fuori, cominciai a prenderla prima di ogni concerto. Mi rendeva euforica e inizialmente anche particolarmente simpatica, sorridevo a tutti …. ridevo e cantavo, rendendo quelle serate particolarmente brillanti. Poi cominciai ad esagerare, ridevo, cantavo e rispondevo al pubblico che cominciava a criticare la mia voce che diventava roca. Mi piaceva quella voce sporca, mi riportava ad alcune grandi cantanti del jazz. Ogni sera una voce nuova, una storpiatura nuova, una stonatura nuova. Il padrone del locale cominciava a non gradire, preferiva una situazione con la musica jazz di sottofondo e non una “prima donna” che inizialmente cantava bene, poi cantava e rideva, poi stonava e poi perdeva la voce. Mi mandò via. Ma non mi preoccupai, io ero sicura di me, quella gente lì mi avrebbe introdotto nel mondo che volevo io. Li frequentavo assiduamente, poi il mio “pusher” venne sbranato dai suoi stessi mostri e non si risvegliò più e quindi mi cacciarono. Niente più coca, niente più soldi, niente più speranze né sogni. Ero rimasta completamente sola, come in fondo lo ero sempre stata, nessuno venne a salvarmi. Mi ritrovai in strada e offrivo servizietti a chi mi ripagava con soldi o con la coca. Un giorno qualcuno mi diede della droga tagliata male, penso sintetica. Mi risvegliai in un pronto soccorso, qualcuno mi prese per strada e mi portò lì. Venni salvata quando in realtà avrei voluto farla finita, mi portarono in un centro e mi aiutarono a disintossicarmi.

Ricominciai di nuovo a vivere la mia vita. Non seppi mai chi fosse quel qualcuno che mi salvò.

Il mio rapitore non mi vuole bene come pensavo se mi ha fatto tornare alla mente quanto mi è accaduto. Avevo voluto rimuovere ogni singolo fatto del mio passato. Queste lacrime che sto versando spero cancellino nuovamente quelle immagini che hanno rovinato la mia vita. Ho sonno, tanto sonno.

Spero di stare meglio in questo nuovo giorno. Mi ha già portato la colazione e non me ne sono neanche accorta. Ho proprio bisogno di un caffè. Non riesco più a contare i giorni da quando sono chiusa qui dentro. Quasi non ricordo per quale ragione mi trovassi a camminare in quel posto sperduto. Cosa stavo cercando? Non lo ricordo più, anzi no, sto talmente bene chiusa in questa gabbia dorata che ho voluto rimuovere apparentemente il motivo per cui camminavo da sola nella nebbia. Ero uscita di casa per colpa di quel maledetto messaggio. C’era scritto: stop!

Avevo trovato un lavoro soddisfacente, lontano dai microfoni, dai palchi e dalle tentazioni. Perché anche quando pensi di essere “salva” non ne esci mai del tutto ne insegui sempre l’odore. Conobbi così colui che pensavo fosse la mia persona, stavo bene insieme a lui, nonostante i nostri alti e bassi che non ci facevano vivere serenamente la nostra storia. Ma è così che funzionano le storie d’amore. O no? Non può andare sempre tutto bene, soprattutto quando a incontrarsi sono due esseri complicati. Un anno fa, durante un banale litigio, senza fondamento, iniziato quasi per scherzo, mi disse che non ero stata capace a rendere tutto più semplice tra di noi. Mi disse che ero incapace di esprimere i sentimenti, incapace di esternare quel mondo complicato, convulso, confuso che si trovava nella mia anima. Insomma, ero dotata di una certa insensibilità diffusa. Erano le stesse parole che mi disse il maestro di canto. Mi accusò di essere “senza forma”. Rimasi spiazzata dalle sue parole, non ne capivo il motivo in quel frangente, le motivazioni di quel litigio erano talmente insulse da farmi capire che aveva trovato uno stupido espediente per buttarmi fuori dalla sua vita. Quanto accadde rimase un peso che mi portai dentro ogni giorno, ogni notte. Oltretutto, aveva ragione che mi piacesse la solitudine e che non amassi i confronti. Neanche quel giorno che mi urlò contro ero stata capace di dire una parola, di difendermi. L’avevo sempre saputo di avere dei problemi, avevo provato anche a curarmi dopo che ero uscita fuori da quel tunnel, ma ero talmente instabile che dopo il primo anno e le prime sedute non avevo più niente da dire, non volevo più parlare e in fondo non ero neanche sollecitata a farlo. Avevo provato a cercare gli stimoli dai miei sogni, dalle mie aspettative, ma avevo fallito. Ma con lui non volevo fallire, era troppo importante per me. Avrei voluto, come mi chiedeva lui “rendere tutto più semplice”. Ci riprovai, gli mandai un messaggio di pace e lui rispose con quel laconico sms: stop! Cadde il mondo intero sulla mia testa e la mia anima. Ero uscita per farla finita, per cercare dei binari, un camion o che ne so o forse uno di quei pusher per comprare della droga che mi fermasse il cuore.

Il mio rapitore ha voluto salvarmi, lui sì che mi vuole bene.

Ha lasciato la porta aperta. Provo a vedere cosa c’è lì fuori. Forse è lì ad aspettarmi per dirmi che ci sarà sempre lui a salvarmi. C’è un’altra stanza con due porte. Una è chiusa. Una è socchiusa ed entra la luce del sole. Il mio rapitore vuole che esca, che vada via. Mi avvicino alla luce, mi invade un sole accecante che mi brucia gli occhi. Mi fermo, non riesco a fare un passo. Dove sei? Non ci sei più? Io non so che fare, dove andare. Sei tu il mio rapitore e tu devi decidere di me.

Ti aspetterò.

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