Serafina (La mia penna)

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Racconto selezionato tra i finalisti 
Concorso letterario Cultora 2018
pubblicato nella raccolta




Serafina
di Francesca Cammisa

 - Come va?
Osservando negli occhi la mia interlocutrice e chiedendomi la ragione per cui mi facesse quella domanda proprio lì, in quel momento, risposi:
- Bene ....
- Che bello ... tu sei sempre serafica - mi disse con un leggero tono di quasi invidia, senza sapere della tempesta, dei fulmini e della grandine che fino a quell'esatto momento erano passati in ogni meandro del mio cervello.
Quello era il momento di spegnere tutta quella confusione in testa, appena fuori di lì sarebbe ricominciato tutto nell'esatto modo in cui era prima che entrassi, ma in maniera diversa, forse in modo più ordinato, con qualche schiarita lontana.
Entrare lì doveva significare lasciare tutto fuori da quel portone, liberarsi degli orpelli odiosi, dei dubbi, delle ansie, ma c'era sempre chi si accorgeva che così non era, nonostante l'aria "serafica" apparente da tutti invidiata. Mi guardava con un sorriso come se intendesse dire "non credere, io ho capito tutto, ma non dico nulla, rimane un segreto silenzioso fra di noi .....". Quel che basta, essere compresa per un attimo, senza rivelare nulla. Pochi posseggono questo dono, il dono di capire, senza interferire e senza sapere, o forse sì, che basta quel leggero sorriso per aiutarti a riconciliarti, almeno per un attimo, con il mondo.
- Da ora in poi quando mi presenteranno a qualcuno dirò: piacere, Serafina!
Il mio nome è Serafina! Non mi chiamo più Martina. Nessuno farà caso al cambiamento.
Sapevo benissimo che quel giorno non avrei dovuto prendere la macchina, tantomeno per andare lì in quel posto e mentre sudavo sotto gli ordini del trainer pensavo “la ritroverò la mia macchina?”. Sì, quando si fatica fisicamente più si pensa ad altro e meno ci si accorge della fatica. Mentre pensavo a questo mi osservavo in quello specchio impietoso …. guardo bene e mi accorgo …. cavoli, si vedono gli slip bianchi sotto i pants, oh mannaggia, si nota tutto, dalla fretta non ho pensato che avrei dovuto indossarli di un colore più neutro. Non se ne accorgerà nessuno. Almeno credo! Credevo male, da quello specchio “impietoso” notavo occhiate ironiche dietro di me. Poco male, farò finta di nulla, si noterà di meno.
Fare sempre finta di nulla era diventata la mia filosofia di vita da quando, dopo quel maledetto giorno, mi crollò tutto addosso. Caddi nel vuoto, apparentemente senza paracadute. In quei momenti in cui precipitavo  pensavo che non ce l’avrei mai fatta, che mi sarei schiantata, che mi sarei rotta ogni piccolo osso e sarei rimasta sdraiata, ferma, senza potermi più muovere, ma qualcosa mi frenò, anche se non sapevo che ci fosse quel “qualcosa”, e l’arrivo al suolo non fu così rovinoso quanto pensassi.
Fare finta di nulla, voltarsi dall’alta parte ogni qualvolta qualcuno o qualcosa mi si accaniva contro. Quel maledetto giorno mi si rivolse il mondo contro, persi tutti i miei riferimenti esteriori e interiori e non seppi reagire. Proprio io che avevo sempre una risposta e una soluzione a tutto. Io, che cambiavo strada se capivo che quella che avevo intrapreso non era più la mia. Accadde qualcosa di rovinoso, ma non riuscivo a ricordare esattamente cosa. Ricordavo solo che non riuscii a muovere un passo, la mia mente vagava alla ricerca di una soluzione e non ne trovava, sbagliai ogni mossa. Mi rialzai da quel pavimento freddo, ma ero cambiata, non ero più io nel momento in cui ricominciai a camminare.
Quella ragazza aveva dato il nome giusto al mio nuovo apparire, Serafina, ma non al mio essere.
 “La macchina, dove ho messo la macchina? Ora ricordo …”. Contrariamente a quanto pensassi nessun carro attrezzi l’aveva portata via, ma vidi da lontano un biglietto tra il vetro e il tergicristallo. “Ecco” pensai “saranno gli improperi di qualche passante. Anche se qui è divieto di sosta, ma non mi sembra dia fastidio a nessuno”.Mi avvicinai e incuriosita lo lessi: “Ciao, anche se non visibili, il tempo non cancella i suoi segni”.
Accartocciai e misi in tasca quel biglietto apparentemente senza senso,  salii in macchina e tornai a casa senza pensarci.
Casa mia in quel periodo era tutta sottosopra, non che non lo fosse normalmente, ma in quel periodo avevo deciso che era arrivato il momento di smantellare tutto. Era arrivato il momento.  Mi mancava un ultimo armadio da liberare e poi avrei finito di buttare via tutto il mio passato.
Quella domenica mi alzai molto presto, e dopo le mie solite abitudini mattutine aprii quell’armadio. Ci lavorai tutto il giorno, a sera mi mancavano solo le ultime cose e trovai nascosto in un angoletto, sotto la carta colorata che avevo utilizzato per foderarlo, una scatolina con dentro un vecchio cellulare, un caricabatteria e un libretto di istruzioni. Lo tenni tra le mani per un po’ guardandolo incuriosita. “E questo da dove esce?”. Lo misi in carica, volevo carpire tutti i segreti chiusi in quel cellulare, di cui non ricordavo la provenienza.
Quasi me ne dimenticai, ma il giorno dopo me lo ritrovai ormai carico tra le mani. Lo accesi. Non ero più abituata a quella tecnologia che, nonostante fosse di pochi anni prima, era ormai quasi obsoleta, mi ci volle un po’ di tempo, un po’ di prove per riuscire a capire come funzionasse e soprattutto a chi appartenesse.
Mi fiondai sui messaggi.
Ultimo messaggio da un 338, ore 22.00: Ti  prego rispondi!!!!! Ho deciso, chiamo i carabinieri. 
Vado indietro e ancora, ore 20.00: dove sei???
Ancora ore 17.00: perché non rispondi? Ti prego rispondimi!! scappa via. Scappa più lontano che puoi. Ho paura che ti accada qualcosa. Mi hai spaventata dopo quello che mi hai detto e con l’ultimo messaggio che mi hai inviato, devi fuggire il più lontano possibile.
Leggere i messaggi a ritroso mi rendeva difficile capire la consequenzialità dell’accaduto. Mi resi oltretutto conto che c’era un mare di chiamate perse provenienti da quel numero.
Mi resi conto immediatamente che quel cellulare era il mio. Non riconoscevo i numeri, oramai non si digitano più i numeri di telefono, non si conoscono più a memoria. Capii ugualmente che quel telefonino era il mio, non perché riconoscessi immediatamente la ragione o la provenienza di quei messaggi, ma perché si illuminò un piccolo meandro del mio cervello e mi rividi lì per terra, senza forze, con il sangue che mi colava giù dalla tempia. Ma dove ero? Perché ero lì? Nei miei ricordi c’ero io, quel giorno terribile, ma non ricordavo il perché, non riuscivo a trovare immagini, suoni e parole di quel giorno. Ma quel cellulare mi costrinse a dover ricordare.
Mi chiusi in casa e cominciai a ricopiare tutti i messaggi  non andando a ritroso, ma cominciando sin dall’inizio.
“Lory, ci siamo lasciati, o meglio l’ho lasciato io … o forse mi ha lasciato lui. Insomma mi ha portato all’esasperazione. Insomma è finita …. e io sto male”
Enrico! Sì Enrico. Ci conoscemmo ad una festa di fine anno. Lui frequentava il liceo scientifico, io il liceo classico. Quel giorno facemmo una festa congiunta dopo aver finito gli esami di maturità. Lo vidi lì per la prima volta. Mi chiamò dopo qualche giorno e non ci lasciammo più. Siamo stati insieme per quindici anni. Me ne innamorai perché era sfuggente, non mi opprimeva, vivevamo liberi la nostra storia. Ma quella libertà non poteva durare per sempre. Ad un certo punto seppi che si vedeva con una sua collega di studio. Non me lo disse nessuno, semplicemente me ne accorsi. Alcune donne lo sentono  sulla loro pelle quando un uomo ha voltato la testa da un’altra parte. L’idea di dover condividere con un'altra il mio uomo non mi piacque affatto, ma lui voleva rimanere. Voleva stare con me e essere libero di poter frequentare qualunque altra donna, però in tutto questo io non potevo avere una vita mia. Nella libertà io ero cosa sua. Ero esasperata, Enrico fece in modo che io lo lasciassi perché lui non aveva né la forza, né il coraggio di farlo. Stavo male, ma male davvero, ma dovevo farlo.
“Mi dispiace Martina, una nuova vita si sta aprendo davanti a te …”
Per cambiare vita cominciai con il trasferirmi in un altro quartiere, che era oltretutto più vicino alla mia sede di lavoro, non dovevo più attraversare la città ad orari improponibili.
Mi trasferii in questo monolocale. Lo arredai a mia somiglianza. Cominciavo a sentire e a vivere la mia libertà. Ma spesso libertà è sinonimo di solitudine. Sei libero di far quel che ti pare, non devi render conto a nessuno. Dormi come ti pare, mangi quando e cosa vuoi, leggi, ascolti musica, vedi il programma che vuoi in TV e nessuno ti può dir niente se vuoi passare un intero pomeriggio sdraiata sul divano a non far nulla. Il primo mese elabori la perdita del tuo amore, il secondo mese ti guardi intorno nella tua casa, il terzo mese ti sdrai per terra a guardare il soffitto, bella la libertà, bella la solitudine. Il quinto mese ti annoi un po’, il sesto mese cominci a parlare da sola, il settimo mese ti manca il sesso con un uomo, bella la libertà, anzi no, avrei voluto essere solo leggermente meno libera.
“Lory, c’è un nuovo ospite a casa mia”
“E chi sarebbe quest’ospite? Lo conosco?”
“Aspetta ti mando una foto”
“Ma è favoloso!! Vengo a trovarti!”
Ecco, per colmare la solitudine presi un coccoloso retriever. Bongo, sì il mio adorato Bongo. A proposito, Bongo, dove sarà ora?
Da quando entrò Bongo nel mio monolocale le mie giornate erano scandite dai miei impegni e dalle sue necessità. Alle 6 mi svegliava, tirando via le coperte dal letto, per andare a fare il giro mattutino dell’isolato. Io mi infilavo la tuta sopra la camicia da notte e senza neanche lavarmi gli mettevo il guinzaglio, scendevo in trance le scale e uscivamo di casa. Toglievo il guinzaglio e cominciava a correre con la lingua a penzoloni a cercare chissà cosa. Faceva il giro dell’isolato, si avvicinava a me, azzannava il guinzaglio e si tornava su a casa. Che bello che era Bongo. Quando tornavo la sera a casa me lo ritrovavo saltellante dietro la porta con il guinzaglio tra le zanne, trascinandomi fuori. Non ho mai saputo se lo facesse perché voleva uscire o per nascondere tutte le malefatte che aveva fatto per casa. Ogni giorno trovavo qualcosa sparso qui e là: residui di carta igienica, il pattume, un giorno trovai le mie mutande, un altro giorno tutti i fogli che avevo messo in ordine per la mia dichiarazione dei redditi. Quella casa ormai gli apparteneva!
“Martina mi presti quella borsetta di stoffa per il matrimonio?”
“Quella rossa? Bongo me l’ha fatta a pezzi”
“A proposito ma tu non vieni?”
“Non capisco neanche perché Enrico abbia voluto invitarmi. No, non è ancora tempo che lo riveda”
L’invito a quel matrimonio mi fece rendere conto di quanto mi mancasse un uomo. Ma gli uomini che avevo incontrato fino ad allora mi sembravano tutti così stupidi.
 “Martina ti va di vederci dopo l’ufficio?”
“Per fare cosa?”
“Che ne so, per parlare un po’, per conoscerci meglio, per bere qualcosa insieme. Potremmo andare in quel bar del centro a prendere un aperitivo”
“E poi?”
“Per farci una scopata…… me la mandi una foto delle tue tette…. Quando mi piacciono le tue tette, ogni volta che ci penso mi viene duro, e poi ti voglio vedere tutta depilata, ormai sono tutte depilate”
“Ma se non le hai mai viste le mie “tette”?!”
“Le immagino sotto la camicetta”
“Caro mio, ho saputo che hai chiesto la stessa cosa a Maria, e lei ti ha mandato la foto e tu l’hai fatta vedere a tutto il piano! Non mi freghi! Anche l’amico tuo ha fatto lo stesso …”
Avevo voglia  di un uomo, di sesso, ma non di questo tipo di uomo.
Sembrava che un virus avesse infettato tutto il genere “uomo”. Uomini a caccia di donne disponibili, non importa se sole o sposate, tanto sesso virtuale e poi …  e poi, ma è forse questo un uomo vero? Un uomo che sa eccitarti, che sa cercare in te ogni singolo punto erogeno? Ma facendo sesso virtuale, come la mettiamo con il toccarsi, il sentirsi, l’odorarsi, il vero godimento? Non lo so. Avevo ragione, mi sembravano tutti stupidi, avevano tutti lo stesso modo di fare, lo spesso approccio, le stesse parole. Identico!
Avevo scoperto parlando con questi “tipo di uomo” che internet era pieno di siti di incontri. Ti incontravi virtualmente, chattavi, ti conoscevi, ti mandavi foto, ti scrivevi parole sconce, sesso finto. Siti pieni di donne disponibili di ogni età. Ma io cercavo un uomo vero. Decisi di iscrivermi a uno di questi siti, perché la solitudine cominciava a pesarmi e volevo divertirmi un po’ alle spalle di questi “tipo di uomo”. Mi iscrissi dichiarando di avere diciotto anni. Misi una foto di una tipetta con le tette esposte e le labbra a “culo di gallina” mentre simula di mandare un bacio. Quanto attirano queste tipette che sembrano piccoline!!! Non ci misi molto ad avere un numero consistente di follower. Ho conosciuto virtualmente una quantità enorme di uomini. Mostrando foto rubate da siti porno, ho eccitato e soddisfatto sessualmente non so quanti uomini. Gli approcci sempre gli stessi, le parole sempre uguali. Mi divertivo, passavo le mie serate e li prendevo come si dice “per il culo” in modo esemplare! Nessuno è riuscito ad eccitare me, tranne le prime volte in cui la novità mi divertiva, poi dopo un po’ di tempo mi annoiavo a morte, le stesse parole, le stesse foto in primo piano! Io un uomo lo volevo toccare! Ma sono stata molto accorta a non farmi mai fregare. Non diedi il mio numero a nessuno e non volli mai incontrare nessuno di loro. Era troppo pericoloso, avevo sentito e letto di storie terribili. E poi? Come potevo giustificare quella foto da diciottenne? Che figura avrei fatto?
Cominciai ad annoiarmi anche del giochetto che mi ero creata.
“Sei tornata? Non mi hai raccontato nulla del matrimonio”
“No sono ancora fuori. Ti racconterò tutto a voce. Martina perché non ci iscriviamo in palestra?”
“Hai ragione. Ci penserò. Fatti sentire quanto torni”.
Lori era fuori, io mi sentivo sola. Decisi di metter il guinzaglio a Bongo per fare una passeggiata nel mio quartiere. Oramai era arrivato tempo che lo conoscessi un po’, fino ad allora frequentavo solo centri commerciali! Mi si aprì un nuovo mondo.
“Signo’ me so arivate le mozarelle. Te le metto da parte?”
“Sì grazie Carmelina oggi me le vengo a prendere”.
“Se me scrivi che te serve, te metto da parte la spesa. So’ arivati certi pommodori! E le ova te servono?”
Carmelina aveva una bottega di frutta e verdura all’angolo. La prima volta mi fermai perché vidi delle fragole che emanavano un profumo straordinario. Rimase la mia fornitrice ufficiale vendeva ortaggi e frutta, che in maggior parte produceva lei, era la migliore del quartiere. Io mi facevo viziare da lei, le chiedevo la verdura già pulita, il minestrone già pronto da mettere in pentola. Pagavo un po’ di più, ma preferivo così, e poi a me sembrava che mi volesse un gran bene, sarà l’anima della commerciante che vuole tenersi stretto il cliente, ma a me quel “bene” che mi dava mi serviva tanto, mi faceva sentire un po’ meno sola.
“Martina so’ usciti i numeri, quando te vieni a prende’ i soldi?”
“Luigi, ma che ho vinto!?!?!? Ci vediamo dopo!! Offro io!”
Luigi era il barista sotto casa. Il barista “di fiducia” che tutti vorrebbero avere. Sapevo benissimo che se entravo a prendere di corsa un caffè non ne sarei uscita prima di mezz’ora! Quanto chiacchierava! Era la prima persona che vedevo la mattina (forse l’unica persona tranne la mia famiglia e vedermi senza trucco!), perché apriva il bar quando scendevo con il cane, io mi fermavo da lui a fare colazione e intanto Bongo si faceva il suo giretto. Luigi si ricordava tutto, persino del mio compleanno, erano in pochi a ricordarselo, ma lui regolarmente mi faceva gli auguri. Il bar era dotato di ricevitoria, io non avevo mai giocato i numeri al lotto prima di allora, ma lui mi convinse. Ogni settimana si faceva raccontare quel che mi era accaduto e mi suggeriva i numeri da giocare e ogni tanto vincevo. Eravamo diventati amici, sembrava che mi volesse bene anche lui, ma i baristi sono amici di tutti.
Con il tempo il quartiere divenne il mio paese, il pizzicagnolo, il negozio con gli articoli per la casa, il calzolaio, la rosticceria cinese, il sushi a portar via, insomma, non frequentavo più i “freddi” centri commerciali e mi accorsi che invece intorno a me, sotto casa mia, era pieno di umanità. Con tutti i difetti del quartiere, le rivalità, i pettegolezzi, ma era vita e io mi sentivo un po’ meno sola. Sicuramente l’aver avuto un cane ha contribuito in modo sostanziale l’avvicinamento di tanta varia umanità verso di me.
“Martina ti ricordi che per domani abbiamo deciso di fare il picnic al parco? Tu devi portare la frutta e acqua per i cuccioli”
“Sì, sì non ti preoccupare. Domani ci sarò. Ricorda che Marta festeggia il compleanno, compro io un pensiero per lei”
“No, non lo comprare ci pensa Stefano.”
Al parco a due isolati da casa mia si era creato in un modo del tutto naturale un gruppetto e ogni sabato e domenica ci incontravamo e, come fanno le mamme che parlano solo dei loro figli, noi parlavamo solo dei nostri cagnotti.  Naturalmente se saltavi il giro al parco e non avevi avvisato che saresti mancata, si preoccupavano tutti e si mobilitavano alla tua ricerca. Una domenica si avvicinò un pastore tedesco, una delle razze che preferisco, che si mise a giocare con i nostri cani. Era un cane tranquillo e non ci preoccupammo della sua provenienza, perché lì in quel giardino, ai cani e ai padroni dei cani la porta era sempre aperta. Di lì a poco si avvicinò il suo padrone. Un fulmine mi colse. Non era bello, ma era “lui”. Come era d’uso nel gruppo ci scambiammo i numeri di telefono.
“Mi piace proprio tanto Bongo. L’hai preso in un canile?”
“No Attilio, l’ho preso con un annuncio”
Quanto ero felice di aver ricevuto quel messaggio. Sarà stato un approccio banale, ma non mi interessava, mi aveva cercato e questo era l’importante.  Nacque una dolce, splendida storia tra noi due. Avvenne tutto in modo naturale, ci trovammo insieme e ci amavamo immensamente.
“Mi sei mancata e mi manchi ogni giorno di più”
“Ma se ci siamo lasciati 10 minuti fa!! Anche se solo da dieci minuti …. Manchi”
Non ci mancava nulla, ci amavamo, passavamo intere giornate a letto, parlavamo tanto, ci compensavamo in ogni cosa.
“Non credi che a questo punto sia arrivato il tempo di vivere insieme?”
“Ma non so Attilio, casa mia è veramente piccola e Bongo ha bisogno dei sui spazi”.
Ricordo perfettamente quel giorno. Quando mi chiese di andare a vivere insieme una forte ansia mi assalì. Lo amavo, lo amavo da morire, ma non so per quale ragione non ero pronta a condividere le nostre vite in modo così stretto.
“Ma possiamo andare a casa mia”
“E come faccio con Bongo? Sono sicura che non riuscirebbe a convivere con Zorro. E poi non c’è abbastanza spazio”
“Forse hai ragione. Ma pensiamoci”
Questa frase mi tranquillizzò, non era più così assillante.
Io non volevo perdere le mie abitudini, il mio quartiere, le persone qui intorno. Utilizzavo Bongo come scusa principale per non fare quel passo.
“Non immagini lontanamente quanto ti amo!”
“Attilio, anche io ti amo”
“Non mi abbandonare mai”
“Se tu me lo permetterai io rimarrò sempre …”
Questi messaggi mi aprivano il cuore. Ma, non volevo andare a vivere con lui, c’era una vocina dentro di me che ogni tanto mi ricordava di stare attenta.
“Martina, mi ha scritto Attilio, mi ha invitato insieme a Gianluca a passare un week end con voi, glielo hai dato tu il mio numero?”
“Io non mi ricordo di averglielo dato. Comunque ha fatto bene, sono felice se riusciamo a stare tutti insieme”
Non ricordavo come possa aver avuto il numero di Lory. Al momento non ci feci caso, ma la vocina ogni tanto mi riportava all’ordine.
“Il capo mi ha appena comunicato che la prossima settimana dobbiamo andare in Francia. Sono stata promossa!!! Come sono felice! Partiremo martedì”
Sono proprio felice!!! Ma viene anche quel tipo che ti chiese le foto per sms? E Bongo? Come farai con Bongo?”
Come faceva a sapere del collega che mi mandava quegli sms? Io cancellavo sempre tutto. Nuovamente feci finta di niente. Ma non gli dissi che anche il “tipo” sarebbe venuto con noi.
“Amore, amoruccio è vero che ci penserai tu a Bongo?”
Se ne occupò lui di Bongo e per dimostrarmi che non aveva problemi con Zorro lo portò a casa sua.
“Amore? Come va a Parigi? Spero che quel tuo collega non ti importuni, altrimenti sai come lo concio quando tornate? Ma non lo importunare neanche tu!”
Come faceva a sapere che era venuto a Parigi con noi? Cominciavo ad agitarmi.
“Ma smettila di dire queste cretinate! Mi manchi”
“Ti ripeto non ci provare a tradirmi! Neanche a pensarlo!”
Quando tornai da Parigi gli raccontai che a Parigi era andata benissimo, che il capo mi aveva dato un ruolo di responsabilità e che presto sarei dovuta andare alla sede di Parigi da sola. Ero felicissima. Attilio apparentemente felice all’inizio, all’improvviso si incupì, mi lasciò Bongo e se ne andò.
“Tu non ci andrai mai più a Parigi. Hai capito!?!?”
“Io ci andrò, ogni qual volta lo vorrò! Ho bisogno di un periodo di tregua. Ti chiamerò” 
Non ci vedemmo per un po’ di tempo. Ma in quei giorni mi sentivo particolarmente osservata, soprattutto la mattina presto quando portavo Bongo fuori. Sentivo suonare in piena notte il citofono e il telefono di casa squillava spesso, rispondevo, ma dall’altra parte sentivo solo dei respiri.
“Lory, sono preoccupata, mi stanno accadendo delle cose strane”
“Martina, non è la prima volta che me lo dici. Vieni per un po’ a casa mia”
“Ma come faccio con Bongo? Non ti preoccupare farò attenzione”
Quella mattina ero di fretta perché sarei dovuta partire, mi fermai al portone e lasciai Bongo andare da solo, ormai era abituato a fare sempre lo stesso giro e non mi preoccupavo. Quel giorno non tornò.
“Lory, Bongo è sparito. Io sono dovuta partire per Parigi. Ti prego puoi chiedere a Luigi del bar se lo ha visto? Sono preoccupata. Io torno domani”.
“Martina, Luigi non lo ha visto e neanche gli altri”
Quando tornai chiesi anche al gruppo del parco se avessero visto Bongo, ma era sparito, volatilizzato. Come era sparito Attilio, erano giorni che non si faceva più vedere né sentire. Stranamente quella sera mi arrivò un messaggio.
“Sei tornata da Parigi? Finita la tregua? …. E Bongo?”
“Come fai a sapere che sono andata a Parigi? Tu sai qualcosa di Bongo?”
“Sì …”
Provai a chiamarlo disperatamente ma non mi rispose.
“Lory, sono preoccupata. E’ completamente folle!! Mi ha scritto, mi ha chiesto di vederci per una ultima volta, sembrava pentito. Ci andrò perché voglio sapere di Bongo”
“Non andare!!”
“Ci andrò. Voglio andare fino in fondo!”
“Perché non rispondi? Ti prego rispondimi!! scappa via. Scappa più lontano che puoi. Ho paura che ti accada qualcosa. Mi hai spaventata dopo quello che mi hai detto e con l’ultimo messaggio che mi hai inviato, devi fuggire il più lontano possibile”

Era tornato tutto nella mia mente e stavo cominciando a ricordare.
Ci incontrammo vicino al suo posto di lavoro. Mi abbracciò e mi baciò teneramente. Mi chiese scusa se negli ultimi tempi era stato un po’ assente,  mi disse che le ero mancata molto, che mi amava profondamente. Risposi al suo abbraccio e ai suoi baci, mi sembrava sincero. Mi disse che aveva trovato Bongo vicino casa sua e che se lo avessi seguito saremmo andati a riprenderlo. Ma doveva prendere la macchina in un garage lì vicino.
Lo seguii. Scendemmo nel garage e mentre camminavamo mi disse che non ci saremmo mai più lasciati. Io gli chiesi tempo “dammi un pochino di tempo e poi verrò da te”. Mi diede uno strattone fortissimo e mi gettò in terra. Mi urlò che di tempo non ce ne era più. Si gettò sopra di me, infilò la mano sotto la gonna e mi strappò via gli slip. Si slacciò i pantaloni e cercò di penetrarmi. Ma non ci riusciva. Io urlavo e più urlavo e più si eccitava. Mi violentò, con una cattiveria che non gli avevo mai visto. Mi schiacciò la testa con tutta la forza che poteva. Mi finsi morta, con la speranza che smettesse di colpirmi così forte. L’unico ricordo che mi era rimasto di quel maledetto giorno ero io che sanguinante mi alzavo da quel pavimento freddo, il resto si era cancellato dalla mia mente come ciò che accadde subito dopo.
Mi venne in mente il bigliettino che avevo trovato quel giorno sulla macchina. L’ho ripescato accartocciato in tasca, l’ho riletto “Ciao, anche se non visibili, il tempo non cancella i suoi segni”, ecco che sale l’ansia, sarà lui che ritorna? ma per fortuna ho trovato nascosti sotto la carta degli articoli di un giornale locale di qualche anno fa. “Trovato uomo impiccato nel suo laboratorio. Aveva vicino due cani, con ogni probabilità avvelenati”. Ma chi avrà lasciato quel bigliettino? Non mi interessava più saperlo.
Dopo aver rivisto in faccia quel periodo della mia vita, ho sentito il sangue salirmi al cervello e sono svenuta. Mi sono svegliata il giorno dopo con le ossa rotte e gli occhi pieni di pianto. Sono scesa e ho buttato tutto nel cassonetto.
Posso ritornare a chiamarmi Martina non più Serafina.

Ora si ricomincia davvero. 

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