Defendit numerus (La mia penna)

Racconto selezionato tra i finalisti 
Concorso letterario Cultora 2017
pubblicato nella raccolta

Defendit numerus

- Ehi? Che ci fai lassù? Ehi? Dico a te, felpa rossa, che fai lassù?
- Eh? Dici a me?
- Sì proprio a te! Non credi sia pericoloso stare lassù? – urlò.
- Non so neanche come ci sono arrivato. Stavo seguendo uno scoiattolo. Ma poi è scappato via. Poi ho visto un pettirosso che portava cibo al nido e sono salito fin quassù.
- E ora come fai a scendere?
- Non lo so, non so come si fa. Non so come ho fatto ad arrivare fin quassù.
- Dai, prova a scendere piano, piano.
- No, aspetta!
- Aspetta cosa?
- Devo arrivare fino a 150.
- 150 cosa?
- Sono ancora a 70, devo arrivare fino a 150. Lasciami contare, non mi distrarre, altrimenti devo ricominciare.
- Ma che succede?
- Quel ragazzo è salito fin lassù e io sono preoccupata che non riesca a scendere.
- Ma perché non scende?
- Non ho ben capito, non lo so. Ma presto capirò tutto …..
- Quello è matto! Lascialo stare, non ti prendere responsabilità.
Angela, si voltò e si allontanò di poco per cercare aiuto da qualche parte , ma non aveva idea di come avrebbe potuto aiutarlo a scendere. Questa situazione le stava dando un certo senso di agitazione. Aveva la sensazione che presto le sarebbe venuto l’ennesimo attacco di panico. Non avendo trovato nulla ritornò indietro e si trovò davanti il ragazzo dalla felpa rossa.
- Come sei sceso?
Tentò di allontanarsi da lei impaurito, ma qualcosa nei suoi occhi lo trattenne.
- Non lo so. Devo andare.
Cominciò a camminare deciso, con la testa bassa e con il corpo proteso in avanti e le braccia che a ritmo accompagnavano il suo passo.
- No, aspetta!
- No, devo andare.
È mattina. Giulio si sveglia. Appena apre gli occhi deve contare fino a 10. Si alza. 3 passi a destra. 3 a sinistra. Poi fermo. Conta fino a 10. Ora può andare in bagno. Si prepara ed esce.
- Ciao Giulio, come va stamattina?
- Aspetta!
Esce dal portone. 3 passi a destra. 3 passi a sinistra. Si ferma in mezzo la strada. Deve contare fino a 10.
In quel momento stava arrivando una macchina che è costretta a fermarsi. “Ahò, ma che stai a fa’? Te ne voi anna’?”. Giulio non si accorge neanche del tipo che gli urla dietro, appena finito di contare torna indietro dal portiere, che era ormai abituato a quel suo rituale giornaliero.
- Ciao Michele. Stamattina va bene. Ora sono pronto per andare al lavoro.
Scappa via, con la sua borsa a tracolla, con passo deciso, la testa bassa e con il corpo proteso in avanti e le braccia che a ritmo accompagnano il suo passo.
È così ogni mattina da circa dieci anni. Va a prendere l’autobus, non guarda nessuno in faccia e tantomeno negli occhi. Arriva al lavoro. Tutti lo salutano con calore e lui, quasi vergognandosene, con la testa bassa si reca alla sua postazione e comincia a contare le caramelle da inserire nelle confezioni. E’ molto preciso e meticoloso, il suo capo è contento, come lo sono i suoi colleghi. Nonostante quel suo modo di essere, tutti gli vogliono molto bene.

- “Giulio …. “
- “Dimmi.” Disse senza alzare gli occhi dalle caramelle che stava contando.
- Sto passando un periodo molto difficile con mio figlio. E’ scontroso, risponde sempre male, quando sta a casa passa il suo tempo sul divano chino sul suo cellulare. Non riesco a parlarci e soprattutto non riesco a interessarlo a niente.
- Andrea, se è un periodo difficile per lui ha solo bisogno di ritrovare se stesso. In questo momento non ti riconosce, ma non ti imporre, cerca solo di ascoltare i suoi silenzi.
- Ti pare facile.
Giulio rimase tutto il tempo con la testa china sul suo lavoro e continuava a contare le caramelle, e disse:
- Andrea nulla è facile, dobbiamo renderci conto che gli altri sono “altro” da noi, non siamo tutti uguali e dobbiamo rispettarci per quel che siamo. Ma scusami, ora non devo perdere il conto.
Le giornate per lui si ripetono in modo quasi “matematico”, ogni azione fuori posto lo rende nervoso, ma i numeri non lo tradiscono mai, come dice il motto latino "Defendit numerus" (C'è sicurezza nei numeri).
Giulio abitava da solo da quando aveva cominciato a lavorare e ad avere una certa autonomia economica. Inizialmente i genitori non presero bene questa sua decisione, avevano paura che da solo non sarebbe stato in grado di gestirsi. Lui invece era certo che ce l’avrebbe fatta, aveva messo “in conto” ogni probabilità e ogni possibilità. Trovò un piccolo monolocale nello stesso comprensorio dei genitori e l’aggiustò a sua somiglianza, e non permise interferenze, nessuno poteva entrare in quello che era il suo mondo.

Quando si alzò in quella mattina di autunno, così grigia e piovosa, percepì che la giornata non sarebbe andata come al solito.
Indossò una giacca impermeabile ed un cappello che gli coprisse meglio la testa, e dopo i suoi soliti riti si avventurò sotto la pioggia talmente battente che l’acqua gli scendeva giù dal cappello rendendo la sua vista difficile. Una folla di ombrelli sembrava aspettarlo alla fermata dell’autobus, per non confondersi tra di loro rimase dietro in attesa di un autobus che potesse accoglierlo senza essere schiacciato.
Era arrivato a contare fine a mille, fisso, con lo sguardo rivolto in avanti, e mentre contava sentiva una presenza accanto a lui, ma stava contando e non poteva voltare la testa. Lei non si muoveva, rimaneva accanto al suo braccio, attenta a non toccarlo, nonostante gli spintoni della gente. Anche lei senza ombrello, indossava un poncho impermeabile che era ormai completamente bagnato.

Fin dalle prime ore di quel grigio mattino Angela aveva la sensazione che sarebbe stata una giornata difficile per lei. Avrebbe voluto rimanere nel suo piccolo letto caldo che le dava tanta sicurezza, ma purtroppo, se non voleva perdere il lavoro di magazziniera in una ditta di moda, doveva raccogliere tutte le sue forze e alzarsi. Quel lavoro le piaceva, le permetteva di vivere chiusa in quel magazzino ed avere pochi contatti con le persone, ciò l’aiutava a placare la sua ansia, ed era necessario per la sua sussistenza da quando perse la madre e venne abbandonata dal padre incapace di gestire una ragazza così problematica. In realtà il padre provava un forte senso di colpa per quell’”abbandono” ed è per questo che la osservava da lontano, non avrebbe voluto che le accadesse nulla di male, ma non era capace di starle vicino.

“Aiuto!” sussurrava “Non ce la farò mai”.
Lui riconobbe quella voce tremante, era la ragazza del parco, stranamente di impulso voltò la testa e la vide con quei capelli completamente bagnati che uscivano dal cappuccio impermeabile schiacciati sul suo viso. Nonostante fosse passato un po’ di tempo, non aveva mai dimenticato quella voce e quel viso.
Si voltò anche lei, le si illuminò il viso: “Ma tu sei il ragazzo dalla felpa rossa!”. Cominciò a diminuire quell’ansia strisciante che le stava salendo su per tutto il corpo. Quel vuoto allo stomaco, quel respiro corto che non riusciva a controllare, quella sensazione di soffocamento che la stava assalendo si dissolsero lentamente.
La pioggia non accennava a cessare. La folla di ombrelli a quella fermata sembrava aumentare attimo dopo attimo, le persone sembravano formiche impazzite che si agitavano per poter riuscire a prendere posto in uno di quei rari autobus che passavano. Nessuno sembrava accorgersi di quei due ragazzi fermi, immobili, bagnati fino all’osso da una pioggia battente e incessante, in balia degli spintoni.
“5.000! 45 minuti e 25 secondi”. Pensava Giulio.
“Oddio, ma come farò ad arrivare al lavoro oggi? Dovrò recuperare chissà quante ore, e come faccio?”, pensava Angela. “Ma finché c’è felpa rossa qui accanto a me, sono sicura che andrà tutto bene”.
Ogni volta che arrivava a 50, Giulio faceva un passo e lei d’istinto lo seguiva, fino ad arrivare al margine del marciapiede, tra la gente che li schiacciava e li spintonava.

In lontananza si intravedeva un autobus.
“6.001, 6.002, 6.003 .… Forza salta con me!” urlò “Questo è il momento!”
Angela si era bloccata, non sapeva cosa fare, se fidarsi, se provarci. C’era il buio davanti a lei.
“Salta!!” , urlò Giulio.
“Uno, due, tre … Vaiiiiiii!!!!”








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